venerdì 18 ottobre 2013

Ognuno ha una storia da raccontare/4

Tutti i diritti dell'idea letteraria "Ognuno ha una storia da raccontare" sono di Jane Pancrazia Cole. A me va solo il dubbio merito di aver voluto aggiungere una quarta puntata alla sua trilogia originaria.

Era l'ottico più bravo della città. Ed era cieco.

A tutti quelli che nel venirlo a sapere si profondevano in melensi dispiaceri lui rispondeva sorridendo: "I miei occhi non vedono, ma le mie orecchie sentono, le mie mani sentono, il mio intero corpo sente. Vibro insieme alle foglie sugli alberi, mi commuovo origliando i sussurri tra innamorati, il vento mi accarezza più dolcemente di quanto voi potrete mai avvertire. Il sole mi abbraccia con i suoi raggi e illumina i miei passi."

Nessuno riusciva a capire come potesse svolgere il suo lavoro meglio degli altri ottici. Lui, che non aveva occhiali in grado di restituirgli in nessun modo la vista perduta, era in grado di abbinare perfettamente montature e visi al primo colpo. I suoi clienti lo definivano un miracolo. Lui una questione di semplice affinità.

Entrare per la prima volta nel suo negozio era per chiunque un'esperienza strana, surreale e irrinunciabile. Non appena la porta si apriva lui si affacciava al bancone. Non c'erano campanelli che potessero indicargli l'entrata di qualcuno nel suo regno. "È facile accorgersi della presenza di un'altra persona: cambia la densità dell'aria" minimizzava lui.

Poi avveniva il rito a cui tutti si dovevano sottoporre, senza eccezione, senza riguardo a stato sociale, età, colore della pelle, statura. Tutte cose per lui senza importanza: ai suoi occhi tutti erano ugualmente famigliari e misteriosi. Prima di estrarre anche una sola montatura dai cassetti stipati sulle pareti, chiedeva il permesso di poter toccare la faccia del cliente, di studiarne la geografia, le imperfezioni, i laghi, le pianure e i rilievi. Mentre lo faceva si scusava. Ma doveva farlo. Le sue mani erano i suoi strumenti di conoscenza.

Terminata l'esplorazione di quel nuovo territorio, quelle stesse mani si dirigevano sicure a un determinato cassetto e, apertolo, ne estraevano una e una sola montatura. Raramente erano costrette a sceglierne una seconda. Il silenzio che ne seguiva era il suo momento preferito: il momento dello stupore, del balbettio, della totale assenza di parole.

Solo ai bambini svelava il suo segreto: "Non sono un mago, magari lo fossi! Ogni persona ha delle originalissime imperfezioni impresse sul volto che raccontano il modo in cui la vita le ha rese uniche. E solo un occhiale le può esaltare donando vera bellezza. Il mio mestiere non è un affare estetico, ma di cuore. Di vibrazioni. Di sentimenti. Uomini e oggetti sono fatti di materiali diversi, ma condividono la stessa anima. Li faccio incontrare. Li faccio conoscere. Li lascio andare l'uno affidato all'altro.
Li espongo a un nuovo tipo di amore.
Che lo capiscano non ha importanza.
L'importante è che continuino a camminare insieme."

6 commenti:

  1. Sono di corsissima, poi commenterò come si deve, ma ora voglio solo dire una cosa: che onore! grazie!

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  2. Dovresti scrivere più raccontini su PD! :-) Eireen

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  3. Molto interessante questa storia, soprattutto per una miope! Gli occhiali non sono oggetti qualunque, diventano una cosa sola con chi li porta, ne cambiano l'aspetto, delle volte lo migliorano, molte altre no.
    "Uomini e oggetti sono fatti di materiali diversi, ma condividono la stessa anima. Li faccio incontrare. Li faccio conoscere. Li lascio andare l'uno affidato all'altro."
    Bravo.

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    1. Pancri, compagna di cecità! Anch'io sono miope e pure come una talpa oserei aggiungere!
      Conservo ancora tutti gli occhiali che ho cambiato. Oltre a essere una testimonianza dell'evoluzione del mio senso estetico, sono anche compagni di vita. Ho sopportato più loro di molte altre persone.

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